Mare Fuori è la serie televisiva italiana dedicata alla vita di un carcere minorile ideata da Cristiana Farina e diretta da Ivan Silvestrini.
I nuovi episodi, viaggiano su livelli qualitativi decisamente più alti,
lavorando sulla crescita individuale dei vari personaggi
che spopolano le celle dell’IPM di Napoli.
La serie soprattutto nell’ultima stagione
risulta avere uno slancio più maturo e meno forzato,
laddove, nella seconda stagione si era intravisto una propensione eccessiva
e artificiosa verso i colpi di scena e le forzature narrative.
Questo aspetto è fondamentale in quanto sposta l’attenzione dello spettatore
su tematiche che spesso risultano essere inverosimili,
soprattutto quando fanno riferimento a questioni legali
strettamente connesse ai detenuti.
Lo sviluppo delle tematiche che, fino a questo momento,
non avevano in pieno toccato la serie,
viene raccontato con la forza delle emozioni senza nessuna banalità
e soprattutto mettendo in evidenza i veri drammi sociali e personali
che si celano dentro i cuori dei protagonisti principali.
Molto probabilmente, come accaduto già con le stagioni precedenti,
anche le nuove puntate debutteranno su Netflix
anche se non abbiamo ancora una data ufficiale di rilascio.


Mare fuori, per quanto continui a proporre la metafora della libertà esterna, rappresenta in ogni caso un’inversione di tendenza nuova ed efficace.
L’esistenza esterna all’IPM non può che essere ricca di opportunità
e fonte di una rinascita, il carcere è paradossalmente un luogo più sicuro
e circoscritto dove i ragazzi si sentono protetti
e dove riescono a colmare i loro vuoti attraverso i rapporti con gli educatori.
Si stabilisce una connessione positiva tra le due parti
ed è incredibile come questo legame possa definirsi autentico
tanto da prendere la forma dei legami familiari.
La crescita individuale e collettiva
e l’indipendenza dalle catene della detenzione
sono il punto di arrivo psicologico ed esistenziale
ancor prima che pratico:
il mare fuori bisogna sentirlo dentro.
È facile farsi coinvolgere da questa serie.


Per quanto esistono diverse discrepanze dalla realtà, soprattutto in campo giuridico,
il copione ci riporta comunque alla realtà, con una tensione che è notevole
in ogni singola puntata e che coinvolge in pieno gli spettatori.
La scrittura della serie riesce a dare voce ad alcuni personaggi lasciati in sospeso,
per poi crearne di nuovi,
in un continuo susseguirsi di suggestioni tematiche
che partono proprio direttamente dalla narrazione delle loro vite.
Il punto debole della serie è sicuramente il bilanciamento tra le varie sequenze
e la superficialità espressa in alcune tematiche.
La serie evidenza la crescita e la maturazione di tutti i personaggi presenti,
in perfetta linea con tutti vari archi narrativi,
ma si riscontra uno sbilanciamento di alcune componenti essenziali della trama:
c’è una concentrazione di svolte della scena
che è eccessiva nelle puntate finali della serie
e ciò sovraccarica enormemente la storia.
Sicuramente molti di questi cambiamenti repentini avranno una eco
nella stagione successiva e saranno metabolizzati meglio da parte degli spettatori.


Il regista è riuscito a costruire una messinscena unendo emozioni e concretezza, arrivando ad una maturità già presente in scrittura.
Bravissimo in particolare nella ricostruzione di alcune scene drammatiche,
così come il background di alcuni dei personaggi, sia nuovi che vecchi,
con degli emozionanti flashback dove si vede tutta la positività
e l’emotività dietro e davanti la macchina da presa.
Un racconto coinvolgente che è credibile
soprattutto grazie alle interpretazioni dei giovani attori coinvolti
che si sono dimostrati all’altezza del loro compito.
Un ruolo importante hanno anche gli attori adulti
che sono sempre al servizio degli artisti emergenti
e sempre disponibili a valorizzare le performance dei più giovani.
Mare fuori, cresce e si modifica su tutti i fronti,
con tematiche che si fanno più tristi,
ma anche con una costruzione realistica dei vari spunti narrativi.
Registicamente Ivan Silvestrini cerca di utilizzare un linguaggio metaforico,
non perdendo al tempo stesso la funzionalità
e l’efficacia del messaggio alla base della serie.
Tutto il racconto è incentrato su delle emozioni
che cercano voce e trovano spesso solo silenzi.
Il regista è bravissimo nell’esorcizzare il male per arrivare al bene
e riuscire a trasmettere un messaggio positivo
nonostante la realtà negativa che contraddistingue l’ambiente circoscritto.

Il 7 Marzo 2014, dunque 9 anni fa,
Vacca pubblicò sul suo canale YouTube “Il Diavolo Non Esiste“,
dando il via ufficialmente al dissing più epico del Rap Italiano,
quello proprio tra lo stesso Vacca e Fabri Fibra.

I dissapori tra i due,
che in precedenza erano amici
a tal punto che Vacca seguì metà del Tour di Tradimento di Fibra,
sono iniziati in alcune interviste.
Fibra aveva pure lanciato delle frecciatine a Vacca in “Zombie“,
a cui il sardo rispose con la vera prima diss-track,
appunto “Il Diavolo Non Esiste“.
Fibra rispose due settimane più tardi con “Niente di Personale

seguita poi da “Nella Fossa” di Vacca.

Fibra reagì nuovamente con “Fatti da Parte

a cui Vacca rispose con l’ultima Diss TrackRitarducci

In questo dissing entrambi hanno dato il meglio,
creando uno dei momenti più epici del rap italiano,
in cui tutta l’attenzione era concentrata sulla qualità delle barre
e punchline cattive che trasudano Hip Hop ancora oggi.

Diteci cosa ne pensate e chi, secondo voi, ha vinto la sfida.

Il 20/02/1967 nasce Kurt Donald Cobain
da Donald Cobain (meccanico) e sua madre Wendy (casalinga).
Vivono ad Aberdeen nello stato di Washington.
Città grigia, piovosa da dove nulla arriva e nulla esce.
La percentuale di suicidio è la più alta della nazione, l’alcolismo dilaga
ed il crack distrugge le giovani menti riversate nelle strade della città.


Già a due anni inizia ad avere interesse per la musica e suona la chitarra.
Prende lezioni di batteria a tre anni e non imparava a leggere la musica,
guardava quello che faceva un suo compagno e lo imitava.
Questo denota in lui già delle doti particolari.
Passò diversi periodi prima con un genitore e poi con un’altro,
in quanto il padre diventò violento, ed iniziò a picchiarlo,
obbligandolo a degli allenamenti di lotta,
ma Kurt odiava gli atteggiamenti violenti
e rimaneva immobile fino a quando non veniva atterrato.
Il padre portava anche a caccia Kurt che però si rifiutava di sparare
e restava nel furgone ad ascoltare i dischi dei Black Sabbath e dei Kiss.

Al suo 14° compleanno, Kurt doveva scegliere tra una bici ed una chitarra.
Scelse la seconda, e dopo aver imparato Back In Black degli AC/DC
iniziò a scrivere sue canzoni.
Iniziò a leggere le imprese dei Sex Pistols su una rivista,
ma dato che il negozio dei dischi di Aberdeen non aveva nulla del genere
si fece un’idea tutta sua della musica punk,
infatti rimase deluso quando ascoltò i dischi punk (Sex Pistols, Clash)
e pur rimanendo attratto dallo stile “estetico” del punk
non comprò più nulla del genere.
Tentò invece di creare un suo stile per mettere in musica
quello che realmente il punk esprimeva esteticamente,
alzava al massimo il suo piccolo amplificatore
e suonava nel modo più cattivo possibile.
Già lo vedeva come un lavoro, come una missione,
ci credeva veramente, giorno dopo giorno sempre di più.

È il 1987 l’anno della nascita dei Nirvana, fondati da Cobain e Krist Novoselic.
Alla batteria si susseguono Chad Channing e Butch Vig,
ma la formazione definitiva arriva nel 1990 con Dave Grohl.

Nel 1989 a Seattle, una delle scene musicali più vivaci dell’epoca,
i Nirvana registrano e pubblicano l’album Bleach
con l’etichetta indipendente Sub Pop Records e raggiungono il successo,
mentre inaugurano la loro “tradizione”:
finire i concerti distruggendo gli strumenti per terra o contro gli amplificatori.
La personalità dell’artista si è sviluppata progressivamente
in base alle esperienze vissute durante l’età adolescenziale
e quelle vissute postume con il gruppo dei Nirvana
che hanno caratterizzato anche la scrittura e la musica di Kurt Kobain.
La varie vicissitudini che hanno accompagnato la vita privata del cantante
sono state la vera dose letale che ha posto fine alla vita di questo grande artista.
L’8 Aprile 1994 viene ritrovato il suo cadavere
nella lussuosa residenza al 171 del Lake Washington Boulevard.
Un caso archiviato come suicidio dagli inquirenti.

Ma restano ancora dopo tanti anni dubbi sulla vicenda che non sono mai stati chiariti.
A partire dal ruolo della moglie,
la star del rock in rosa Courtney Love,
il giallo della morte di Kurt Cobain, quel fucile senza impronte
e un testamento scomodo risuonano ancora nella memoria collettiva
che riguarda quel tragico evento.

Il decesso, accertò l’autopsia, era avvenuto tre giorni prima, il 5 Aprile 1994.
Stando ai rapporti della polizia, il cantante si era suicidato sparandosi in bocca
con un fucile Remington calibro 20, aveva ingerito Valium in dosi non terapeutiche
e si era iniettato eroina sufficiente per una tripla overdose.
Eppure, la “Crime scene” non ha mai convinto i complottisti.
Il fucile era poggiato sul braccio sinistro, senza impronte,
ed in una collocazione innaturale per una persona
che si sia fatta appena saltare la testa.
Anche la lettera d’addio non convince, divisa in due parti.
Nella prima, Cobain scrive in modo coerente.
Si rivolge all’amico immaginarioBoddah”,
confidandogli la sua crisi di artista rock pressato dal successo,
nella seconda metà della lettera, invece,
la scrittura si fa frenetica, confusa:
Kurt scrive alla moglie Courtney Love e chiede protezione per la figlia Frances Bean.

Courtney decide di sua iniziativa di assoldare un detective, Tom Grant,
per fare chiarezza sulla vicenda.
Lei inizialmente è al di sopra di ogni sospetto per l’opinione pubblica.
Ma Grant scopre che Kurt aveva stilato un testamento che escludeva la moglie,
da cui intendeva divorziare, dall’asse ereditario.
E qualcuno nota anche strane somiglianze tra la calligrafia della donna
e quella delle frasi finali della lettera d’addio.
Sono ancora tanti gli interrogativi aperti
su questo episodio fondamentale della vita di Kobain.

Negli anni sono state espresse diverse teorie che spostavano l’attenzione dal suicidio
e ponevano invece i riflettori sull’omicidio.
Resta in ogni caso difficile confutare la “convinzione generale
che riconosce il gesto dell’ artista come suicidio,
questo anche perché il cantante, precedentemente,
aveva tentato più volte tale gesto riuscendo comunque ad uscirne illeso.
In realtà questa posizione è piuttosto comoda da sostenere
in quanto la vita dell’artista era sostanzialmente problematica
e di conseguenza dava diversi spunti all’opinione pubblica
per rafforzare la tesi del suicidio.

Difficile riuscire a stabilire una verità
anche perché le teorie “complottiste” non trovano riscontri tangibili.
Questo caso resta avvolto nel mistero,
come tanti altri avvenimenti che hanno comportato la morte di artisti famosi.


A prescindere da come sia morto questo grande Artista
ha lasciato a tutti noi un qualcosa
che rimane indelebile e che sarà sempre viva:
la sua musica.

Guè ha definito lo “storytelling” come la capacità di girare un film in rima.

Questa tecnica viene spesso sfruttata in ambito musicale
e quando usata bene rende la canzone magica,
capace di portarti nel mondo dell’artista.

In Italia, di canzoni riuscite, ce ne sono tantissime,
ma se dobbiamo sceglierne una su tutte è sicuramente “Serpi” di Jake la Furia,
uscita nel 2005.

In questo caso, la storia raccontata è quella dell’artista milanese,
del suo passato e della sua vita.

Per prepararci all’entrata del suo mondo, il rapper milanese,
ci regala un intro che riesce perfettamente in questo scopo.
Una volta partita la canzone verremo accompagnati
lungo la storia da una base Hip Hop dalla melodia malinconica.

Durante i 4 minuti e 43, Jake, ci racconta della sua adolescenza,
della situazione familiare, dei suoi problemi di dipendenza,
della vita di strada che ha caratterizzato una parte della sua esistenza.
Infine ci descrive anche la sua rivalsa, il suo successo
e come questo ha cambiato la sua vita.

Ogni parola è pesata, non c’è una barra meno significativa di un altra,
tutto è pensato e legato assieme alla perfezione.
Alla fine della canzone ti sembrerà di aver vissuto con Jake la sua esperienza.
Infatti è proprio per questo che è uno dei migliori esempi di storytelling italiano.

R. Kelly nasce a Chicago nel 1967 da una famiglia poco agiata,
ed è un bambino introverso, concentrato sulla musica che impara da autodidatta.
Ha difficoltà di apprendimento ed è vittima di bullismo.
Viene molestato da una familiare dai 7 ai 13 anni e, secondo lo stesso Kelly,
questo ha risvegliato i suoi ormoni molto prima del dovuto.

Space Jam

Negli anni ’90 diventa famoso, non solo come cantante
– è suo il successo “I Believe I Can Fly che è la colonna sonora di Space Jam
ma anche come produttore e songwriter.
Scrive anche “You Are Not Alone” per Michael Jackson
ed è stato il talent scout di Aaliyah, conosciuta quando lei aveva 12 anni e lui 25.

You Are Not Alone

Non è un caso se l’album di debutto di Aaliyah,
cantante dal talento sconfinato morta prematuramente a 22 anni,
viene scritto da R. Kelly e si intitola “Age Ain’t Nothing but a Number“.

Age Ain’t Nothing but a Number

Vincitore di Grammy, affascinante, ricco e famoso, predatore, manipolatore, sicuramente dotato di fiuto per gli affari e sensibilità artistica,
ha venduto oltre 75 milioni di dischi in tutto il mondo,
risultando l’artista di R&B maschile di maggior successo degli anni ’90
ed uno degli artisti musicali più venduti al mondo.
Nonostante la grande fama,
la vita di questo artista resta comunque avvolta da un alone di mistero
per i tanti enigmi ancora sconosciuti.

L’ex star, e stato riconosciuto colpevole
dopo essere stato dipinto dall’accusa come uno stupratore seriale
in grado di mantenere il controllo sulle sue vittime con qualsiasi inganno.
Gli avvocati di Kelly, avevano cercato di ottenere la pena più mite
invocando gli abusi che lo stesso cantante avrebbe subito anche in famiglia
durante l’infanzia, ma senza avere nessun riscontro positivo.

Durante il processo,
sono state presentate centinaia di prove scritte, videoregistrate e audioregistrate
degli abusi a cui l’imputato, con l’aiuto dei suoi dipendenti e collaboratori,
umiliava e manipolava le sue vittime.

Kelly adescava minori con i suoi soldi e la sua fama”,
riferisce una delle vittime identificata solo col nome di Angela,
che prosegue sostenendo: “Con ogni vittima diventavi più malvagio“,
ha attaccato la donna fissando il cantante negli occhi
per tutta la sua incredibile testimonianza.
“Usavi fama e potere per allevare ragazze e ragazzi minorenni
e asservirli alla tua gratificazione sessuale“. 

 Attraverso il movimento #MeToo,
diverse donne hanno trovato il coraggio di parlare
e raccontare ciò che in molti già sapevano ma che avevano fatto finta di non vedere. Questo segreto era rimasto nascosto per anni
grazie al fatto che il cantante godeva di una buona fama:
questa persona è stato in grado di rovinare la vita a decine di donne
e nel fare questo ha avuto totale “carta bianca“.

Il cantante è stato condannato da una giuria di New York a 30 anni,
per aver adescato donne e bambini
e per essere stato a capo di una rete criminale a Chicago
che reclutava donne sottoponendole ad abusi sessuali e psicologici.  

Il risultato positivo di questa battaglia legale
è stato possibile anche grazie al documentario:
R. Kelly: vittime di una popstar
che riesce a dare voce a chi per anni è stato messo a tacere,
dando un volto, un nome, delle emozioni a donne
che hanno dovuto subire violenze fisiche e psicologiche
fin dalla primissima adolescenza.
R. Kelly non era solo un uomo adulto, ma era anche ricco, potente e violento.
Questo fattore risulta essere essenziale,
in quanto spiega il motivo per cui l’artista sia riuscito per diversi anni a farla franca.

Durante il processo il cantante ha dovuto ascoltare le testimonianze di sette donne, molte delle quali in lacrime, che hanno ricordato la sofferenza
e le conseguenze degli abusi a cui erano state sottoposte.

Una delle vittime ha dichiarato:
“Ci riprendiamo i nostri nomi: Non siamo più le prede che eravamo una volta”.  

Le azioni e la condotta del cantante sono state deplorevoli
anche per le abilità manipolative e coercitive utilizzate nei momenti cruciali
che hanno caratterizzato i reati commessi.

 La condanna di Kelly è considerata una pietra miliare
per il movimento #MeToo in quanto è stato il primo grande processo
per abusi sessuali in cui la maggior parte delle accusatrici e vittime
erano donne afroamericane.
Inoltre delle nefandezze di Kelly si era speculato per anni,
ma nessuno era mai stato in grado di inchiodarlo.

Jamil, conosciuto anche come Jamil Baida.
Rapper classe ‘91, nato in Italia con origini persiane.
Appassionato di cinema, cura regia e montaggio di tutti i suoi videoclip musicali.
Conosciuto anche per la sua abilità nei dissing.
Dopo un disco ufficiale intitolato “Il Nirvana
e due mixtapeBlack Book” e “Black Book 2“,
fonda il suo gruppo ed etichetta indipendente Baida Army.
Pubblica l’album “Most Hated” e la Deluxe Edition, con cinque brani inediti.
Il suo terzo album ufficiale è “Rap Is Back“, un progetto personale e introspettivo,
per questo senza featuring.

FLOW è il nuovo album disponibile dal 27 Gennaio 2023.

Nel rap italiano Jamil è sempre stato una mosca bianca:
con il suo modo di fare provocatorio e diretto,
nel corso degli anni è stato protagonista di diversi dissapori
con esponenti più o meno conosciuti della scena,
attirando odio e facendosi diversi nemici in ambito musicale.
Chi è fan di Jamil lo è anche per questo suo modo di fare,
forse fin troppo schietto e senza filtri.

Dopo “Rap is Back” e “Most Hated“,
dove Jamil non aveva brillato in modo particolare
e si era beccato un bel po’ di critiche,
con “Flow” ci porta un disco più solido, diverso dagli altri,
anche se Jamil è sempre lo stesso,
anzi sembra essere in forma migliore rispetto all’ultimo progetto,
quasi come se avessimo a che fare con un nuovo Jamil.

Certo, il rapper è uno di quegli artisti che o li ami o li odi,
non è un artista da hit o che ascolti tanto per,
ma questa volta il disco risulta essere davvero coinvolgente.
Ascoltando bene le tracce ci sono diversi spunti interessanti,
così come notevoli sono i featuring, anche quelli pochi, ma efficaci.

Il disco non nasconde le sue intenzioni:
far risorgere l’artista dopo il flop del lavoro precedente.
Purtroppo “Rap is Back” risultava un disco senza novità,
con un Jamil poco ispirato o originale.
L’idea di prendersi l’enorme responsabilità
di riportare un genere che sulla carta funzionava alla perfezione,
ma nella realtà un po’ meno non fu un idea brillante.
Stavolta il rapper veronese ha saputo rimediare agli errori
e questo suo ritorno in gran stile non può che fare piacere.

Nel disco si riscontra un evidente riferimento al 2020
e a quell’album che sembrava l’avesse segnato irrimediabilmente (“Mamma Scusa”), collegandosi poi a quelli che sono gli intenti del nuovo progetto.
Flow” cambia rotta anche a livello di beat:
Jamil opta per produzioni diverse dalle solite,
anche per offrire nuovi stimoli all’ascoltatore,
puntando su sonorità morbide e senza esagerare con l’utilizzo dell’autotune.

Gli ospiti sono tanti e ben distribuiti all’interno della tracklist:
Fedez in “L’Odio“,
dove finalmente torna a rappare con una strofa molto diretta
e eclissa abilmente Jamil.
Inoki su BPM insolitamente bassi per lui,
Jake la Furia ed Emis Killa in due brani diversi tra loro,
ma comunque street (“Leader” e “Zona”),
Nayt in un banger clamoroso (“4AM”),
Mr. Rain in un brano dai toni delicati (“Siamo Qui”),
oltre a Nyv e Niko Pandetta rispettivamente presenti in “France” e “Sicario”.

Jamil da solo ha cercato di mantenere alto il livello
e con brani come “TN Squalo”, “Don’t Lie” e “Male
completa il quadro rendendo “Flow” un lavoro ben strutturato,
che riporta a galla le qualità di un artista spesso sottovalutato dal pubblico.

Il concept dell’album è concentrato sullo status guadagnato negli anni dal rapper
che, dopo un lungo periodo di attività, decide per una sperimentazione ben mirata,
ma che nello stesso tempo potesse mantenere il modo di scrivere
che ha sempre contraddistinto lo stile dell’artista.

A questo proposito, la necessità di accogliere nuove sonorità nel proprio repertorio
ha permesso a Jamil di far emergere un lato più introspettivo,
come testimonia il brano “Siamo Qui” con Mr. Rain e Sad.

Jamil è un artista che va giudicato in base al suo percorso complessivo.
Il brano “Mamma Scusa“, in cui il rapper sviscera il periodo tormentato in cui uscì l’ultimo criticato album “Rap is Back“, mette in luce il bisogno di sfogarsi e di raccontarsi: prerogative principali di “Flow
e del momento attuale vissuto da Jamil dopo due anni di pausa.

Il disco risulta essere piacevole all’ascolto
e mette in evidenza delle qualità canore dell’artista
che fino a questo momento ci erano sconosciute.
Jamil aveva sempre optato per uno stile decisamente meno “sonoro“.
La riuscita di questo lavoro sta anche nella capacità dell’artista di mettersi in gioco
e di accettare un cambio direzionale
per offrire al pubblico un esperienza emozionale nuova.
(I.M.D.L.)

L’omicidio di Tupac Shakur è rimasto irrisolto per oltre 25 anni
nonostante numerose persone abbiano puntato il dito contro il principale sospettato:
Orlando Anderson (persino suo zio Keefe D).
Nelle numerose interviste, nel documentario e nel libro
chiamato Compton Street Legend,
l’ex Crip ha ammesso di avere avuto un ruolo fondamentale nell’omicidio di Pac.

2Pac è stato ucciso a colpi di arma da fuoco il 7 Settembre 1996
vicino all’incrocio tra Flamingo e Koval a Las Vegas, Nevada.
Morì sei giorni dopo all’University Medical Center all’età di 26 anni.

Questo è quello che si sa per certo:
Tupac Shakur e Suge Knight, all’epoca CEO di Death Row Records,
si incontrarono per andare a vedere un incontro di Mike Tyson
all’MGM Grand di Los Angeles.
Nella hall del casinò, però, Shakur incrocia Orlando Anderson,
un membro della gang dei Crips.
I due si scontrano – con la partecipazione degli entourage di Shakur e Knight
ma la situazione rientra in poco tempo e ognuno va per la sua strada.
Più tardi Tupac e Knight salgono in macchina con l’intenzione di andare al Club 662,
un locale di proprietà del CEO di Death Row.
Durante il tragitto, però, una Cadillac bianca si affianca al veicolo
e un uomo (non identificato) fa fuoco.
Erano le 11 di sera.

Il rapper fu colpito quattro volte
– due proiettili nel torace, uno nel braccio e l’ultimo nella coscia –
e si ritrovò con il polmone destro perforato.
Knight, invece, ne è uscì praticamente illeso:
solo una piccola ferita sulla testa causata dalla scheggia di un proiettile. 

L’ omicidio è inquadrato nel contesto della radicale contrapposizione
tra West Coast e East Coast.
Due sound differenti, due filosofie concorrenti, due modi diversi intendere il rap:
per tutti gli anni ’90 West Coast e East Cost hanno diviso pubblico e addetti ai lavori,
generando un conflitto che è andato ben oltre il rap.

I protagonisti delle opposte fazioni erano due:
Tupac e Notorious B. I. G.
Sebbene fossero fino a poco tempo prima amici, Pac e Biggie,
a causa di tutta una serie di episodi,
entrano in una faida che resta ancora impressa nella memoria collettiva
di tutti gli appassionati dell’Hip Hop.
Diviene ovviamente memorabile il loro beef a suon di rime
che porta alla nascita di due tracce cult del genere:
Hit ‘Em Up di Pac e Who Shot Ya? di Biggie,
dove entrambi si insultano e minacciano esplicitamente di farsi fuori.

Hit ‘Em Up

I media, hanno sempre scelto di raccontare una storia suggestiva,
allontanando chiunque dalla verità.
Secondo i media, il colpevole era l’ex amico e rivale The Notorious B.I.G.;
i due hanno trovato il successo insieme all’inizio degli anni’ 90,
ma dopo qualche anno il rapporto si è incrinato,
travolto dalla storica rivalità tra East e West Coast.
Rivalità che sarebbe iniziata con Who Shot Ya?,
il pezzo di Biggie del ’94 che molti hanno interpretato come una diss track
per Shakur che, due anni dopo, ha risposto con Hit ‘Em Up,
in cui sembra raccontare una scappatella con Faith Evans,
la moglie di Biggie.

La Evans, qualche tempo dopo,
ha dichiarato che il marito era convinto che tutti lo incolpassero dell’omicidio
e aveva paura delle ritorsioni.
Biggie ha sempre negato.

Un’ altra teoria, anche questa difficile da provare,
dipinge Suge Knight come il vero colpevole della morte di Tupac.
C’è chi è convinto che il rapper fosse sul punto di fondare la sua etichetta
e Knight avrebbe orchestrato l’omicidio per impedirglielo.
L’uomo, però, ha sempre negato.
Non solo, in un documentario propone una quarta versione dei fatti:
Sharita Golden, la sua ex moglie, e Reggie Wright Jr.,
all’epoca capo della sicurezza di Death Row Records,
avrebbero organizzato l’assalto in cui è morto Tupac,
ma la vittima designata era proprio Knight.
Il movente?
I due volevano il controllo dell’etichetta.

Altra teoria poco plausibile riguarda le dichiarazioni di John Potash,
autore del libro-inchiesta FBI War on Tupac Shakur & Black Leaders,
secondo il quale, gli omicidi di Shakur e Notorious B.I.G.
sarebbero da configurarsi nell’ottica di un piano governativo
volto all’eliminazione di figure scomode nella lotta ai movimenti afroamericani
potenzialmente dannosi per la società
(come quanto accaduto negli anni ’60 con le Pantere Nere).
Sebbene Tupac non militasse in alcuna organizzazione per i diritti dei neri o simili,
il suo carisma avrebbe potuto risvegliare sentimenti antigovernativi sopiti negli anni,
specie per la natura dei suoi testi inneggianti la libertà, l’odio verso le autorità
e in generale la sua idea di vita Thug Life, molto contestata all’epoca.

A quasi ventidue anni dalla sua morte,
importanti rivelazioni sull’omicidio stanno ora emergendo
dalla confessione del rapper Keefe D.

 Keith David, in arte Keefe D, rapper e membro della gang losangelina dei Crips
dichiara: “Ero un boss di Compton, spacciavo droga
e sono l’unico vivo in grado di raccontare la storia dell’omicidio di Tupac.
Sono stato inseguito per vent’anni
e sto uscendo allo scoperto ora
perché ho il cancro.
Non ho nient’altro da perdere.
Tutto quello che mi interessa ora è la verità“. 

Durante un incontro del 2021 con The Art Of Dialogue, Keefe D,
si era in realtà già dichiarato colpevole, anzi complice,
in quanto presente in macchina quando Anderson
sparò i colpi mortali al rapper di Los Angeles.
Secondo quanto è stato riferito dal LVPD,
l’ex detective del dipartimento di polizia di Los Angeles Greg Kading,
ha ritenuto “inconcepibile” che Keefe D non fosse stato arrestato
a causa del suo evidente coinvolgimento nel crimine:
“Bisognerebbe arrestare Keefe D con l’accusa di complicità in omicidio,
sulla base delle sue numerose confessioni pubbliche“,
ha detto a The Sun, l’ex poliziotto. 

Anzi, le parole di Keefe D potrebbero ora costargli la libertà.
In una recente intervista con Bomb1st,
Reggie Wright Jr. ha suggerito che gli investigatori stanno scavando
nel coinvolgimento di Keefe D e potrebbero addirittura trascinarlo in prigione.

Wright ha suggerito che Keefe D ha tutte le ragioni per essere nervoso
perchè la polizia è effettivamente nel bel mezzo di un’indagine nei suoi confronti
che mirerebbe a dimostrare il suo coinvolgimento attivo nell’omicidio di 2Pac.
“Sarebbe quindi una decisione dell’ufficio del procuratore distrettuale
determinare se le prove sono sufficientemente forti per essere perseguite.
Il dipartimento di polizia può assolversi dalle proprie responsabilità
arrestando Keefe D e affidando la responsabilità al procuratore distrettuale,
a cui appartiene”.

È davvero incredibile come a distanza di anni
non si riesca ancora a fare luce sui tragici eventi che portarono alla morte di Tupac.
Nonostante i tantissimi testimoni la verità continua a restare sepolta.
Le ultime rivelazioni però tracciano una nuova direzione per le indagini,
dando a tutti noi la speranza che un giorno questo caso possa essere risolto.

(I.M.D.L.)

The Score” dei Fugees, disco simbolo dell’Hip-Hop anni ’90

Sono passati 27 anni da “The Score“,
un capolavoro che racconta la storia
di una giovane Lauryn Hill, di Wyclef Jean e di Pras Michel
che da soli si occuparono della scrittura
della maggior parte dei testi della produzione dei brani.

Lauryn Hill lo ha definito un “audio-film”
che racconta una storia anche con tagli e interruzioni nella musica.

Il “Sound” non è solo classico Boom Bap:
The Score è influenzato da più generi tutti riconducibili alla black music
(e noi della Stanza li apprezziamo tutti),
come l’R&B ma anche il Reggae,
evidenti in pezzi come “No Woman, No Cry” o “Zealots“.
I sample, poi, sono un altro punto di forza di un album
perfettamente curato dall’inizio alla fine.

Sebbene si tratti di un album rap uscito negli anni ’90,
nei testi di “The Score” si fa poco riferimento ai temi tipici di quegli anni.
La volontà era quella di dar vita a un tipo di arte
che tutti avrebbero potuto apprezzare.

Emblematica è una delle barre più famose di Lauryn Hill:
so while you’re imitating Al Capone, I’ll be Nina Simone
and defacating on your microphone
“.
Qui Lauryn manifesta un’importante presa di posizione:
quella di allontanarsi dagli stereotipi dei rapper duri
e mostra l’altra faccia della musica,
quella vicina a Nina Simone,
quella che vuole raccontare in maniera autentica un “qualcosa”.

Il secondo album dei Fugees è anche la consacrazione di Lauryn Hill.
La sua voce dolce e al tempo stesso tagliente
è ciò che ha permesso a “The Score” di diventare immortale.
La capacità di rappare ma anche quella di cantare
è stato l’aspetto che forse più di tutti ha permesso a Lauryn Hill di prendersi la scena.

Miglior Album Rap ai Grammys del 1996 e 7 platini (senza gli streaming),
The Score è l’album di un gruppo rap più venduto nella storia.
Ciò è stato possibile perchè i Fugees , con la loro forte personalità,
hanno abbattuto le barriere,
arrivando ad un pubblico anche al di fuori del mondo Hip-Hop.

L’aspetto incredibile è che anno dopo anno
sembra che il disco acquisisca sempre più valore,
come se con il passare del tempo si comprendessero meglio i suoi lati sconosciuti.
Ma è questa, in fondo, la bellezza di The Score:
un pezzo d’Arte che si scopre diverso
e per questo sempre più bello ascolto dopo ascolto

Durante tutti gli anni Settanta,
l’onda dello scandalo travolgeva la società italiana,
non solo per i costumi ed il modo di porsi dell’artista,
ma anche e soprattutto per i contenuti espliciti delle sue canzoni:
basti pensare a Metrò (Invenzioni, 1974),
in cui un uomo fa avances ad una donna sulla metropolitana;
alla celebre Mi Vendo (Zerofobia, 1977),
confessioni di un gigolò felice del suo mestiere;
a Fermoposta (EroZero, 1979),
in cui un voyeur (“schedato, per atti osceni segnalato”)
invita le “anime perverse” a corrispondere con lui.


Gli episodi scandalosi esistevano già in quel contesto storico
e soprattutto suscitavano negli spettatori sentimenti nuovi e mai provati prima.
Risulta quindi difficile accettare lo stupore di chi si scandalizza oggi
per un bacio tra Rosa Chemical e Fedez

Nelle 5 ore abbondanti a puntata,
condotte da Amadeus assieme allo storico Gianni Morandi,
coadiuvati da Francesca Fagnani, Paola Egonu e Chiara Ferragni,
di questa competizione canora,
tra ospiti e varia umanità in cui è successo di tutto
per la gioia del vastissimo pubblico televisivo,
l’unico episodio che ha avuto seguito è questo famoso bacio

Come se la trasgressione non fosse lecita
solo perché il contesto e il consenso non lo richiede.
La trasgressione è un gesto che riguarda il limite
e non fa nessun riferimento al consenso comune.
Limite e trasgressione devono l’uno all’altra la densità del loro essere.
Non c’è limite all’infuori del gesto che l’attraversa.
Non c’è gesto se non nell’oltrepassamento del limite. 

Quindi è lecito per artisti come Rosa Chemical oltrepassare quel limite.
Lo si può fare baciando Fedez
o lo si può fare indossando determinati indumenti o truccandosi vistosamente.

Trucco e paillettes sono stati per due decenni il marchio distintivo di Renato Zero:
un personaggio sopra le righe, provocatorio,
che racconta il mondo come nessuno aveva osato prima.
Quello che si è visto a Sanremo non è nulla di nuovo.
La vera novità sono artisti “innovativi”
come Madame, Lazza, Colapesce e Dimartino, Mr. Rain
che sono riusciti ad occupare i primi posti di un Sanremo
che, per quanto è cambiato negli ultimi anni,
resta comunque una competizione tradizionalista per diversi aspetti.
Questi artisti, giovani, sono riusciti a collocarsi nei gradini più alti della classifica
riuscendo a conquistare anche chi non è abituato a certe sonorità.
Il rap è riuscito anche in una dimensione totalmente inadeguata
a ritagliarsi un suo ruolo.
Spostare gran parte dell’attenzione su avvenimenti
che a primo impatto possono sembrare scandalosi,
non fa altro che diminuire l’ ascolto delle canzoni
che dovrebbero essere invece l’ unico motivo di discussione.
Questo sistema vale per la musica in generale,
in quanto oggi conta molto di più uno scandalo
che una performance artistica di qualsiasi tipo.
Il valore dell’arte è stato sottomesso dalla cultura del “Gossip“.
Oggi conta più la vita di un cantante attraverso le storie Instagram
e le varie piattaforme virtuali piuttosto che l’ arte che tenta di proporci.
Diventa davvero complicato individuare i veri artisti in base ai propri gusti
quando l’intera scena musicale è vittima della superficialità dell’ascoltatore. 

(I.M.D.L)

Con “No Bodyguard FreestyleANNA ha dimostrato,
ancora una volta,
di avere tutte le carte in regola
per diventare un punto di riferimento del rap italiano.

Tre anni fa, in giro per l’Italia risuonava un solo pezzo: BANDO.
ANNA aveva solamente 16 anni,
ma le sue rime su quel beat house diventato iconico
non passarono inosservate.

Il resto, lo sappiamo, è storia,
ma un successo così immediato ha delle conseguenze.
Gli occhi del pubblico e della scena erano tutti puntati su di lei:
c’era chi l’amava, si,
ma anche chi si chiedeva quando sarebbe crollata questa meteora.

Tante le aspettative, troppa la pressione,
ma dopo tre anni ANNA ha saputo mettere tutti a tacere.
Avrebbe potuto sfruttare l’hype a suo vantaggio, invece,
proprio nel momento in cui tutti le chiedevano di più,
ha deciso di rallentare e lavorare,
riuscendo così a imporsi
come una delle figure di spicco della nuova scena del rap italiano.

Il suo talento al microfono è evidente:
dai beat house, al sound reggaeton, dalle basi trap a quelle più classiche,
non sembra esistere un suono che non si sposi con la sua voce.
Quando rappa accanto ai pesi massimi della scena,
come nel caso di “Cookie’s N Cream“,
riesce sempre a lasciare la sua impronta,
come se facesse questa roba da una vita.